pj harvey - white chalk
Come si può non parlare del ritorno di Pj Harvey? Dopo alcune prove non proprio esaltanti, Polly Jean scopre una vena che sembra aprire nuove strade. Abbandonate le conturbanti atmosfere dei leggendari Rid of Me, Dry, Is this desire?, superate le difficoltà del successo interplanetario con Stories from the cities e Uh Huh Her, con White Chalk, la più autorevole rappresentante del rock d’autore mondiale si racchiude in se stessa e per la prima volta affronta melodie intime, trascurando il suo strumento, la chitarra, e utilizzando sussurri di pianoforti e archi. La voce non è violenta, sembra arrivare dall’aldilà, così come lei stessa, che sulla copertina è rappresentata come il fantasma di se stessa: uscita da uno spettacolo di Emma Dante? Un omaggio a Emilie Bronte? Quello che è certo è che la musica è bella e malinconica, va a pescare in una tradizione di blues ruvido e risulta spesso claustrofobica, certe volte troppo. A pensarci bene, il passaggio ricorda molto il lavoro che Nick Cave fece quando dopo Murder Ballads pubblicò The boatman’s call: quasi a dover pagare un pegno doloroso al grande successo ottenuto, Pj diventa austera e triste, si trasforma in una entità a-corporea, e la sua voce in un lamento. I ritmi sensuali e le evocazioni di sesso e desiderio disperato espressi con chitarra elettrica, basso e batteria sono lontani. Buona musica, come sempre, ma quanta ansia! anche noia?
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